L'uomo è sempre una persona


Di Paolo Pagani
Docente di Filosofia


Il dibattito sull’aborto sembra superato, il diritto della vita umana nei suoi primi stadi viene ormai subordinato ad altri diritti, quello dei genitori, quelli della ricerca, quello della società. Come vede lei la questione aborto e rispetto della vita nascente?
È frequente che nel dibattito tra filosofi o tra politici il diritto del nascituro venga subordinato o almeno confrontato con altri diritti, che sembrerebbero alternativi o comunque limitanti rispetto al primo. Per esempio capita di ascoltare che si invochi un diritto alla qualità della vita, secondo cui la vita sarebbe degna di essere vissuta e darebbe luogo a un diritto, solo in quanto realizzasse certi standard di qualità; oppure si subordina il diritto del nascituro a quello dei genitori o della madre di poter controllare in qualche modo la qualità della vita che sta nascendo. È chiaro però che questi diritti, reali o presunti, devono fare i conti anzitutto con l’evidenza che la vita che si sta formando nel grembo materno è la vita di un uomo. E su questo credo che ormai, almeno nell’ambito della letteratura che riguarda i temi bioetici, vi sia una certa convergenza. Piuttosto non sempre si riconosce che la vita umana sia, in quanto tale, vita di una persona.

Vuole dire che i dati biologici parlano chiaro, l’uomo inizia al momento del concepimento, ma secondo alcuni, la persona umana apparirebbe più tardi?
Stiamo assistendo ad uno spostamento dell’asse del dibattito. Vent’anni fa si discuteva, a volte si litigava, sul carattere umano o meno dell’embrione. Alcuni non esitavano addirittura a dichiarare che si trattava semplicemente di un’appendice del corpo materno che poteva essere tranquillamente evacuata. Questo tipo di dibattito ormai – anche grazie alle evidenze che la fecondazione in provetta ha messo sotto gli occhi di tutti - non è più attuale. E anche l’umanità dell’embrione è largamente riconosciuta al di là di differenze ideali, filosofiche, confessionali. Siamo oggi di fronte a un altro tipo di dibattito: alcuni sostengono che le prime fasi della vita umana nascente non sarebbero vita qualitativamente personale, l’embrione sarebbe vita umana ma non persona. E questo tipo di distinzione, formale ma molto rilevante, viene poi proiettata analogicamente sulla vita declinante, sulla vita del malato in coma o del malato in fase terminale. Secondo i sostenitori di tale distinzione, vi sarebbero uomini che non sono persone.
Distinguere tra uomo e persona è estremamente pericoloso. Questa distinzione ha portato in passato a conseguenze davvero nefaste, come per esempio il programma eugenetico nazista, che – prima ancora della creazione dei campi di sterminio – aveva portato all’eliminazione di decine di migliaia di persone. Il presupposto era lo stesso: ci sono uomini che non sono persone. Credo che anche chi non fosse del tutto persuaso che l’uomo è comunque e sempre persona, dovrebbe ricordarsi di questa lezione storica. E tenere bene a mente le derive cui il tipo di distinzione in parola può condurre.

Nel dibattito intorno alla vita nascente capita anche di ascoltare distinzioni tecniche o scientifiche che hanno preso piede nel linguaggio comune. Per esempio è diventato di comune uso l’espressione pre-embrione.
Il termine “pre-embrione” è utilizzato da alcuni per indicare la vita del nascituro nelle prime due settimane di sviluppo. È chiaro che questa tecnicizzazione di linguaggio, a volte va a copertine/coprire qualche equivoco. L’espressione pre-embrione è stata inventata negli anni ’80 da un’embriologa inglese, la McLaren, nell’ambito del dibattito interno alla cosiddetta “Commissione Warnock”. La McLaren ha ammesso che la figura del pre-embrione è stata inventata per aprire uno spiraglio alla possibilità di una manipolazione della vita umana nei primissimi momenti del suo sviluppo. Ma lei stessa, come biologa, ha dovuto riconoscere che l’embrione, fin dai suoi stadi più primitivi, controlla il proprio sviluppo: quello che autonomamente lo porta fino alla maturazione completa. Dunque, questa distinzione ha un significato, non scientifico, ma piuttosto ideologico. Si tratta di capire se alla fragilità dell’embrione nei primi momenti del suo sviluppo possa corrispondere da parte nostra, sia pure a fin di bene, una possibilità di intervento manipolativo o di sfruttamento di qualunque natura. Credo che su questo tema ci debbano essere moltissime cautele che non vanno attenuate dall’uso di espressioni tecniche o, come in questo caso, pseudotecniche.

Se è chiaro che non abbiamo a che fare non con un grumo di cellule ma con una vera e propria vita dotata di un unico ciclo vitale, dalla fase di zigote fino al momento del parto, e se questa vita è vita umana e anche personale, allora qual è il tema del dibattito?
La problematica resta quella di cui parlavamo poco fa: la distinzione che si vorrebbe introdurre tra vita umana e vita personale. Ma, in che misura e secondo quali criteri, chi è già nato ha il diritto di decidere per chi non lo è ancora, subordinando il valore della vita umana come tale, a degli standard qualitativi? E chi concretamente dovrebbe stabilire questi standard? E poi, avrebbero essi una validità permanente, o dovrebbero essere riveduti di giorno in giorno? È davvero questa la strada che vogliamo intraprendere?
Mi sembra chiaro, invece, che “l’animale razionale” che siamo, sia il nostro modo – umano – di essere persone; e che alla persona vada riconosciuta una dignità non condizionata, che non sopporta la sottomissione a standard qualitativi. Dunque, dobbiamo fare di tutto perché la vita nascente sia comunque accolta. Intervenire violentemente sul nascituro in nome del rispetto di standard qualitativi, non potrebbe certo dirsi, nonostante quel che si pretende, un atto di responsabilità.